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Franco Fassio: “L’Economia Circolare del cibo per riequilibrare il futuro di tutto il Food System”
Franco Fassio: “L’Economia Circolare del cibo per riequilibrare il futuro di tutto il Food System”
di Paolo Marcesini
Un progetto, un osservatorio, progetti di ricerca e sviluppo, formazione. E oggi il Circolar Economy for Food diventa anche un portale, un hub informativo con il compito di valorizzare e condividere all’interno della comunità del food system le migliori pratiche, l’impegno delle singole imprese e delle startup, le ricerche universitarie e i progetti di filiera per adottare e comunicare un pensiero produttivo realmente e concretamente rigenerativo.
Come nasce il progetto e perché è indispensabile definire l’importanza dell’Economia Circolare e il suo sviluppo all’interno del food system?
L’idea di realizzare un hub informativo sui temi dell’economia circolare applicata al cibo nasce nel 2017, in parallelo alla stesura di “Circular Economy for Food. Materia, energia e conoscenza, in circolo” (Edizioni Ambiente, 2018) libro che ha rappresentato a livello mondiale, il primo testo di divulgazione scientifica su questo tema. Da allora, come Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, monitoriamo le aziende e gli enti di ricerca, nazionali e internazionali, che praticano e svolgono ricerche inscrivibili nella Circular Economy for Food (CEFF), con la finalità di comprendere le potenzialità di questo nuovo paradigma economico-culturale e partecipare allo sviluppo teorico-pratico dello stesso. L’esigenza di contribuire in maniera più incisiva alla definizione e all’evoluzione del quadro concettuale della CEFF, è poi emersa con maggior forza quando tramite l’azione di monitoraggio da noi svolta, abbiamo descritto l’impatto di alcuni casi studio analizzati sui 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs). Proiettando i risultati di quest’analisi sulle metriche messe a disposizione dal modello denominato “The Wedding Cake” sviluppato da Rockström (il padre della teoria dei limiti planetari) e Sukhdev dello Stockholm Resilience Centre, modello che ci ricorda come il cibo sia unità base di connessione di tutti i 17 SDGs, il quadro che emerge mette in evidenza come, nel complesso, si ponga ancora poca attenzione a salvaguardare la base della “torta”, ovvero la dimensione della biosfera, che contiene e supporta il piano sociale ed economico. In sostanza, il nuovo paradigma rischia di non essere rigenerativo nei confronti del capitale naturale ma di favorire solamente un approccio manipolativo del rifiuto, situazione che, paradossalmente, potrebbe portare a un’accelerazione dell’obsolescenza programmata. Una tale deriva, ovviamente, come umanità e Pianeta, credo che non possiamo permettercela.
Quali sono i pericoli e i rischi che corre oggi il mondo della produzione del cibo?
Più che parlare dei pericoli che corre il mondo della produzione del cibo, mi sembra più opportuno parlare dei rischi che il Mondo corre a causa di una produzione alimentare chiaramente insostenibile.
Quanto mettiamo in tavola determina conseguenze sulla salute del Pianeta e della stessa umanità. Ad esempio, il nostro piatto influisce sul clima e ne è a sua volta influenzato, in un rapporto d’interconnesso dualismo. Molti sono gli indicatori che ci raccontano di come ogni cosa nel food system sia connessa in un rapporto di reciproca evoluzione o involuzione. Come dice Raj Patel, importante economista, sociologo, attivista, di origine indiana, “noi tutti soffriamo di un’infiammazione sistemica generata da un capitalismo estrattivo e dobbiamo far si che elefanti sempre più grandi si aggirino con cautela in quel negozio di porcellane che è il Pianeta”.
In questo periodo storico di transizione, che dall’era geologica dell’Antropocene dovrebbe portarci a vivere l’era dell’Ecocene, credo che siamo di fronte a un bivio: da un lato, possiamo prendere una strada le cui fondamenta poggiano sulle spalle delle popolazioni più fragili e vulnerabili sposando una logica di corsa all’accaparramento delle risorse mentre dall’altra, possiamo lavorare per mitigare il nostro impatto per essere nelle condizione di fronteggiare meglio i cambiamenti e, in alcuni casi, per capire come adattarci. Se scegliamo la prima strada, assisteremo a un crescendo di fenomeni come il land grabbing, il water grabbing, di guerre per l’energia e le terre rare, di paura e instabilità per una buona parte della popolazione mentre la seconda strada, richiede l’adozione di un approccio collaborativo, sistemico, circolare, di simbiosi mutualistica, di adozione di una logica win-win per noi e per l’ambiente. In una parola sola, si tratta di ragionare in chiave co-evolutiva.
Negli anni del boom economico, abbiamo permesso che la specializzazione prendesse il sopravvento sulla visione d’insieme, la produttività sulla qualità della vita dell’uomo e dell’ambiente, il rendimento sul benessere, in pratica abbiamo concesso a una serie di logiche lineari di imporsi su scenari sistemici, e da questa contrapposizione sono emerse sofferenze a più livelli.
Lo riassume bene l’antropologo britannico Gregory Bateson che nel 1972, nel suo libro “
Verso un’ecologia della mente”
scriveva
“I maggiori problemi del mondo sono il risultato della differenza tra come la natura funziona (ovvero come un sistema) e il modo in cui le persone pensano (che è principalmente lineare)”
.
L’economia lineare è chiaramente figlia del pensiero lineare.
Un modello economico che si fonda sul
modus operandi
“produci, consuma, dismetti” è un modello di economia che, una volta saturate le esigenze primarie, crea bisogni secondari per garantire la continuità della produzione, meccanismi di credito per sostenere i consumi, debiti pubblici per stimolare la domanda, non fermandosi semplicemente a prendere in considerazione che non può esistere una crescita infinita su un Pianeta finito. All’economia lineare giustamente si sta ormai da anni pensando di contrapporre un’economia circolare che ci dovrebbe portare ad adottare un approccio sistemico per risolvere problemi sempre più complessi e interconnessi, ma il Circularity Gap Report del 2022 ci dice che attualmente solo l’8,6% dell’economia mondiale è circolare, dunque c’è ancora molto da fare e abbiamo poco tempo. Recenti dati dell’European Compost Network ci dicono che il 40% della totalità dei rifiuti a livello europeo è scarto organico, e che di questo scarto solo il 33% circa viene valorizzato a fine vita, dunque abbiamo un 66% di possibile materia prima seconda su cui dobbiamo ancora ragionare per far sì che non venga sprecata diventando rifiuto. Ci servono le economie, tassonomie, innovazioni, ma soprattutto la voglia e la mentalità per mettere in discussione alcune di quelle abitudini consolidate che sono il vero ostacolo alla transizione verso uno sviluppo sostenibile.
Quali sono gli ambiti su cui impattano maggiormente i sistemi alimentari?
A mio parere stiamo assistendo a una vera e propria “crisi della ragione” che si palesa nella sua insensatezza quando affrontiamo il tema dello spreco alimentare inteso come Food Loss and Waste. A livello mondiale buttiamo 1.300.000.000 di ton di cibo (circa 8600 navi da crociera) per un valore complessivo di circa 1.700 miliardi di dollari e, allo stesso tempo, sappiamo che servirebbero circa 267 miliardi di dollari l’anno per eliminare la fame nel mondo entro il 2030, un investimento corrispondente allo 0,3% del Pil mondiale. A questo dato possiamo aggiungere che è stato quantificato scientificamente (grazie ai calcoli di Life Cycle Assessment) come, insieme al cibo sprecato, stiamo letteralmente buttando via annualmente circa 250 miliardi di litri di acqua (pari al consumo di New York per i prossimi 120 anni) e 1,4 miliardi di ettari di suolo (il 30% della superficie mondiale agricola utilizzabile).
Ma come vi dicevo, l’economia circolare applicata al cibo non può limitarsi a essere solo una riflessione sul come evitare la generazione di un rifiuto.
Partire dal cibo per sviluppare un cambio di paradigma economico-culturale in chiave circolare vuol dire riportare l'attenzione alla biodiversità, alle comunità, alla qualità delle relazioni, alla sostanza dei comportamenti.
Questo perché, ad esempio, andando oltre al focus sui rifiuti, sappiamo che principalmente a causa della produzione di cibo, le specie stanno scomparendo al ritmo di circa 27.000 all’anno, cioè a una velocità da 100 a 1.000 volte più elevata rispetto al tasso di estinzione fisiologico connesso all’evoluzione naturale. Su circa 30.000 specie commestibili presenti in natura, 3/4 dell’alimentazione mondiale dipende da appena 12 specie vegetali e 4 animali. Pensate che, le colture alimentari che, da sole, soddisfano il 95% del fabbisogno energetico mondiale, sono appena 30. Tra queste, frumento, riso e mais forniscono più del 60% delle calorie che consumiamo. E se, naturalmente e culturalmente, stiamo convergendo velocemente verso il promuovere un’economia omologante e quindi meno resiliente, appare ancora più evidente che lavoriamo per alimentare l’economia funzionale a se stessa, più che a rispondere a dei reali bisogni primari dell’umanità. Un valido indicatore che conferma la nostra voracità è l’Earth Overshoot Day, il calcolo del giorno in cui la popolazione mondiale ha consumato tutte le risorse terresti disponibili per l’anno e ha incominciato a sovrasfruttare il pianeta non concedendo agli ecosistemi il tempo necessario per rigenerarsi, un giorno che nel 2022 è caduto il 28 Luglio. Esagerati stili di vita ovviamente incidono pesantemente sulla quantità di risorse che l’umanità avrà a disposizione negli anni a venire. L’estrazione di materiali primari è triplicata dal 1970 al 2010: da 22 miliardi di tonnellate di materiali annui, si è passati a 70 miliardi, da una media globale di 6 tonnellate pro-capite a 10, il tutto ovviamente non egualmente distribuito tra gli stati. Si stima che nel 2050, mantenendo stabili i ritmi di produzione e consumo, servirà immettere nel sistema globale, circa 180 miliardi di tonnellate di risorse naturali, ovvero 20 tonnellate annue pro-capite. Di queste però, circa 29 miliardi di tonnellate mancheranno se non si interviene nel preservarle e rigenerarle.
Inoltre, quando nel 2050 la popolazione mondiale supererà i 10 miliardi di persone, il problema non si limiterà alle sole materie prime, ma riguarderà anche una richiesta di energia crescente del 30% per sostenere l’incremento del 70% della produzione agricola. Si tratta di una situazione a cui è necessario rispondere con soluzioni capaci di ridurre le emissioni nocive per l’ecosistema. Le concentrazioni di CO2 sono aumentate del 145% rispetto ai livelli preindustriali (prima del 1750). A causa della produzione fino alla vendita di cibo, vengono generate più di 3,3 miliardi di ton di CO2, ovvero circa il 34% di tutte le emissioni di gas serra. Lo spreco alimentare, dopo Cina e Stati Uniti, è il terzo fattore che genera più emissioni climalteranti a livello planetario.
Infine, uno scenario in cui la situazione è già drammatica è quello dell’acqua, in cui la produzione agricola rappresenta la causa del 69% dei prelievi e, come se non bastasse, utilizzando nei campi abbondanti quantità di azoto e fosforo per aumentare la resa delle colture, si stanno modificando i cicli globali biogeochimici contaminando le falde acquifere. Sempre tramite l’acqua (e non solo), la plastica si sta facendo strada nella catena alimentare umana. Dati scientifici ci dicono già oggi che circa l’83% dell’acqua da bere mondiale è contaminata di microplastiche. In pratica, stiamo accumulando rifiuti dentro il nostro corpo, così come accade nelle nostre discariche, sostanze non naturali e difficilmente metabolizzabili dall’organismo. Sono materiali e sostanze che modificano i nostri equilibri fisiologici e non si tratta solo di microplastiche. L’European Food Safety Authority, ha pubblicato numerosi articoli sulle contaminazioni del nostro organismo a causa delle sostanze che vengono usate negli allevamenti o nell’agricoltura intensiva. Si stima che, ad esempio, un Italiano in media ogni anno, insieme al "normale" cibo, mandi giù 12 kg di sostanze chimiche (funghicidi, insetticidi, erbicidi, etc.) e 9 grammi di antibiotici (pari a 4 terapie). Non c’è quindi da stupirsi se il World Health Organization, ci segnala come il rischio di mortalità per patologie legate alla cattiva alimentazione abbia superato quello relativo a malattie determinate da insufficiente apporto calorico.
Alla luce di questi dati, credo che sia chiaro che la Circular Economy for Food si debba occupare di tutti questi aspetti, non separando le problematiche in compartimenti stagni, ma adottando un approccio sistemico per analizzare i problemi e individuare le soluzioni. Una modalità operativa che, come dice l’Istituto Superiore di Sanità, sia di “
One Health
”, ovvero riconosca che la salute umana e degli ecosistemi sono legate indissolubilmente.
Ricerca e sviluppo, innovazione e tradizione, comunità e territorio, imprese e filiere. L’Economia Circolare può essere la cerniera per ricucire una nuova Economia delle Relazioni capace di restituire equilibrio e un futuro sostenibile a tutto il sistema?
Se dovessi sintetizzare in un’unica frase quello che ho potuto comprendere lavorando a numerose ricerche e sperimentandone la loro applicabilità con le imprese, direi “we are all one system”, noi siamo un tutto organico. Il nostro mondo è caratterizzato da reti annidate dentro reti in cui sono determinanti non tanto gli attori del sistema, quanto ciò che si scambiano attraverso le relazioni. Si tratta di un sistema dinamico composto di materia, energia, informazioni e caratterizzato da stock, flow e feedback loop. Un sistema in cui l’equilibrio tra le parti vale di più della somma dei singoli elementi.
Pensare per sistemi (Systems Thinking) ci può aiutare a vedere le interconnessioni, a tutelare la salute di quelle vitali (evitando, ad esempio, lo scaturire di zoonosi che spesso nascono dall’interruzione di relazioni tra unità ecologiche e che possono portare a dinamiche pandemiche come quella che stiamo ancora vivendo), ad affinare la nostra capacità di capire le esigenze di tutte le parti coinvolte nel sistema, a essere coraggiosi nel progettare nuove relazioni che rendano il sistema più resiliente.
Noi siamo le nostre relazioni e l’economia circolare può essere lo strumento che ci aiuta a consolidarle evitando di compromettere i rapporti con il miglior fornitore di materia prima che il genere umano conosca, ovvero la Natura.
Ci può fare un esempio?
In Natura non esiste il concetto di rifiuto, tutto viene metabolizzato dai 5 regni naturali (batteri, alghe, animali, piante, funghi), ogni elemento viene valorizzato al 100% e diventa vita. Con lo stesso obiettivo, sono ormai molte le realtà industriali che adottano un approccio simbiotico scambiandosi materie prime seconde, scarti di produzione, forme residue di energia, servizi, competenze e tecnologie. Come scrivevano i geografi Charles White e George Renner in “Geography An Introduction to Human Ecology” del 1936, sono tutte quelle industrie che “apparentemente separate e distinte, in realtà dipendono l’una dall’altra”.
In questi anni sono nati molti nuovi Circular Business Model che si concretizzano attraverso la valorizzazione di sottoprodotti, la condivisione di tecnologie, la rigenerazione di prodotti, la dematerializzazione e l’ottimizzazione dei processi e così via ma, ci tengo a ricordare, attenzione a voler chiudere il cerchio a tutti i costi! Uno dei rischi principali dell’economia circolare è legato alla dicotomia tra eco-efficienza ed eco-efficacia. Se non si presta attenzione alle conseguenze indirette prodotte, un’azione circolare (eco-efficiente) può potenzialmente rimanere lontana dai paradigmi della sostenibilità (eco-efficacia) e questo accade soprattutto quando ci sono fasi concettuali di un progetto che non sono considerate (blind spot), e quindi quando non viene adottato un approccio sistemico nelle fasi di progettazione dell’azione circolare. Per farvi qualche esempio, un’azione circolare non è a mio parere degna di essere chiamata tale quando non tiene conto degli impatti sul contesto ambientale introducendo specie aliene invasive negli agroecosistemi locali, oppure quando non prende in considerazione la lunghezza della catena di approvigionamento generando maggiori emissioni climalteranti, e ancora quando non chiarisce le dinamiche economiche che contraddistiguono i rapporti con i lavoratori. Purtroppo di situazioni del genere ne vediamo. Sembra quasi che per alcune aziende la circolarità sia più un esercizio di stile che un concreto impegno trasformativo.
Ecco perché è importante che per le grandi imprese la transizione ecologica assuma un significato rilevante, mentre la politica ha l’obbligo di sostenere in maniera concreta le piccole medie imprese che sono più in difficoltà nel modificare i propri metodi produttivi. Abbiamo bisogno di punti di riferimento per migrare verso un nuovo paradigma e come Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo siamo costantemente alla ricerca di un dialogo con tutte quelle imprese che adottano un approccio sistemico per essere vettori del cambiamento.
Alla base della Circular Economy for Food sono state individuate 3 C, quella di Capitale, quella di Ciclicità e quella di Coevoluzione. Una sorta di vocabolario capace di definire la qualità sostenibile del cibo.
A me piace chiamarlo un “quadro culturale” che definisce uno scenario operativo in conformità a sistemi di valori condivisi in una determinata società. Le 3 C si rifanno alla tassonomia ambientale e sociale europea, promossa a partire dal giugno 2020 e sviluppata dalla Commissione Europea per raggiungere gli obiettivi del Green Deal. È un sistema di classificazione che stabilisce delle priorità, ma soprattutto serve per definire un linguaggio comune, una chiara definizione di ciò che è "sostenibile". In questo modo, si contribuisce a spostare gli investimenti dove sono più necessari e si crea maggiore sicurezza per gli investitori proteggendoli dal greenwashing. Il regolamento sulla tassonomia europea stabilisce 6 obiettivi ambientali (mitigazione dei cambiamenti climatici; adattamento ai cambiamenti climatici; uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine; la transizione verso un'economia circolare; prevenzione e controllo dell'inquinamento; la protezione e il ripristino della biodiversità e degli ecosistemi) e 3 sociali (la garanzia di un lavoro dignitoso per tutti, la garanzia di standard di vita e benessere adeguati, la promozione di comunità e società inclusive), le 3 C semplificano ulteriormente tali obiettivi senza banalizzarli e ambiscono a esaltarne la natura interconnessa e inscindibile.
Se dovessi darti una definizione sintetica di che cosa dovrebbe essere oggi, a mio parere, la Circular Economy for Food, ti direi che è quel modo di pensare e agire sistemico che parte dal porre al centro di ogni processo decisionale la tutela e la rigenerazione del capitale naturale a cui è associato quello umano, culturale ed economico, rispettando i limiti planetari e offrendo, allo stesso tempo, uno spazio equo alla società civile.
Capitale, Ciclicità e Coevoluzione sono i confini operativi di un’anarchia guidata, per dirla con le parole di Carlin Petrini, Presidente della mia Università.
La C di Capitale Naturale, Umano, Culturale ed Economico ci ricorda che l’umanità non deve essere un soggetto destabilizzante, invasivo, ma che dovrebbe cercare l’equilibrio con la Natura. In altre parole, come succede per gli ecosistemi naturali, anche il nostro modello economico dovrebbe aspirare a raggiungere il suo climax, ovvero quelle condizioni ambientali e sociali che rimangono stabili e in grado di autoperpetuarsi nel tempo. La C di Ciclicità invece, nelle sue diverse modalità esecutive, rappresenta il metodo di lavoro che, in chiave circolare, racchiude al suo interno tre concetti fondamentali quali l’estensione della durata dei prodotti (EcoDesign) e della responsabilità dei produttori/consumatori, la metabolizzazione di ogni eccedenza attraverso nuovi cicli di valorizzazione, la necessaria adozione di energia e materia rinnovabile. Infine, la C di Coevoluzione indica l’insieme delle priorità e condizioni che deve avere una progettazione per essere ritenuta circolare, ossia l’adesione a un paradigma collaborativo e sistemico che generi una soluzione vantaggiosa per tutti, compreso l’ambiente (tornando così in una logica circolare al capitale).
L’Italia con le sue filiere agroalimentari e la qualità delle sue proposte può essere leader anche nella produzione circolare del cibo?
Sappiamo che l’alimentazione sarà una questione cruciale nel ventunesimo secolo e che l’Italia può dimostrarsi all’altezza della situazione se agisce come “Sistema Paese”. La filiera agroalimentare estesa (comparto agricolo, industria alimentare, distribuzione e horeca) rappresenta per l’Italia il primo settore economico, con un fatturato di oltre 500 miliardi di euro e quasi 4 milioni di occupati. Personalmente ritengo che vi sia la necessità di riorientare parte delle priorità agricole da una produzione di quantità a una di qualità, ma quel che è certo è che ognuno di noi, come consumatore finale, può e deve fare la sua parte insegnando alle nuove generazioni a vivere dentro i limiti planetari e sociali. Se possiamo essere dei leader anche nella produzione circolare di cibo? Io credo che la possibilità di dare il buon esempio esista sempre. Dipende se, come dice George Bernard Shaw - scrittore, sceneggiatore, drammaturgo irlandese, Premio Nobel per la letteratura nel 1925 - in un futuro prossimo saremo uomini ragionevoli che si adattano al mondo oppure irragionevoli poiché insisteremo nel cercare di adattare il mondo a noi.
Possiamo parlare di economia circolare anche a valle della produzione? Come estensione della responsabilità sociale del consumatore, della sua consapevolezza ambientale, e della sua ricerca di benessere?
La “circolarità” è una dinamica evoluzionistica presente da sempre in Natura e anche nell’umanità. Il cibo è il mezzo attraverso cui inizia il processo circolare di metabolizzazione della materia nel corpo umano e la sua consequenziale trasformazione in energia per la vita. Una considerazione che ha spinto il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach ad affermare nella seconda metà dell’800 che “Noi siamo ciò che mangiamo”. Dunque la nostra alimentazione è fondamentale e come non ci permettiamo di ingerire sostanze non metabolizzabili dal nostro organismo, perché sennò staremmo male, così non dovremmo produrre e mettere in commercio prodotti non “digeribili” dal metabolismo che caratterizza la raccolta differenziata. Quindi, la prima riflessione che tengo a condividere è che, come consumatori consapevoli, non dovremmo giudicare la qualità di un prodotto solo dal suo contenuto, ma anche dal suo contenitore. Un buon cibo deve essere sostenibile tanto nelle sue materie prime quanto nel suo packaging, che deve essere eco-progettato per mettere il consumatore nelle condizioni di differenziarlo correttamente una volta che diventa non più utile. Su questo tema, io credo che l’economia circolare debba insistere sull’incontro tra una responsabilità estesa del produttore e quella del consumatore finale.
In secondo luogo, credo che altri due fattori siano fondamentali per la realizzazione della transizione ecologica: la riduzione degli sprechi e la transizione proteica, due temi su cui il consumatore è in prima linea. Una dieta sana per l’umanità e il Pianeta presenta un apporto calorico ottimale e consiste in larga parte di alimenti di origine vegetale, ridotte quantità di alimenti di origine animale, prevede grassi insaturi piuttosto che saturi e limitate quantità di cereali raffinati, alimenti ultra-trasformati e zuccheri aggiunti. Stando alle cifre attuali presentate da EAT-Lancet Commission, commissione scientifica di riferimento sui temi della Planetary Health Diet, la quantità di frutta, verdura, frutta a guscio e legumi consumata a livello globale dovrebbe raddoppiare, mentre quella di alimenti come carne rossa e zucchero dovrebbe ridursi di oltre il 50%.
Sul fronte della riduzione degli sprechi, invece, pianificare i pasti settimanali, non vergognarsi di chiedere di portare a casa gli avanzi nel caso si vada fuori a mangiare, condividere piccoli elettrodomestici e comprarne di durevoli, valorizzare gli scarti non più edibili per generare ammendante agricolo, adottare la circolarità in cucina sono tutte accortezze che possiamo decidere di far nostre.
In particolar modo io credo che la “Cucina Circolare” abbia ancora delle grosse potenzialità da esprimere. Con il Food Lab di Pollenzo, stiamo lavorando da mesi sul chiarire le modalità operative della circolarità in cucina da noi definita come “un creativo processo culinario ricombinatorio che nasce dall’utilizzo dell’intero ingrediente e da cicli (corti, lunghi, a cascata e puri) di valorizzazione di ogni sottoprodotto”.
La storia ci insegna che adottando questa mentalità sono nati piatti che tuttora segnano la storia della gastronomia dei territori. Come ad esempio i Ravioli del Plin, che nascono nel Novecento nel territorio delle Langhe, del Monferrato e del Roero (Piemonte) come piatto a base di pasta fresca all’uovo ripiena di carne e verdure stufate avanzate dal giorno prima, oppure le più internazionali Meatball (in italiano, Polpette), un piatto nato in epoca romana, tra il 25 a.C. e il 35 a.C., utilizzando carne lessa avanzata da vari tagli di differenti animali. Ma affermare che logiche di economia domestica siano praticate solo per una questione di valorizzazione delle eccedenze è forse riduttivo, poiché non rende merito alla componente culturale ad esse collegata. Alla base di questa continua ricerca-azione, ci deve essere il rispetto per il frutto del proprio lavoro e la consapevolezza di ciò che è servito per generarlo. Un legame emotivo con un prodotto che ha un forte impatto ai fini del trattamento riservatogli nel corso e al termine del suo ciclo di vita.
In che modo la piattaforma di divulgazione circulareconomyforfood.it può aiutare le singole imprese impegnate nel processo di transizione verso un nuovo modello produttivo?
Un’economia sostenibile può esistere soltanto se sostenuta da un'economia della conoscenza. La piattaforma di divulgazione scientifica circulareconomyforfood.it mi auguro possa prima di tutto essere uno strumento utile a “comunicare”, nel vero senso della parola che, avendo la stessa radice di “comune”, significa “mettere in comune, rendere accessibile, condividere un’informazione”.
In uno spazio temporale relativamente breve, deve crescere la sensibilità di fare innovazione sostenibile. Per raggiungere questo traguardo, dobbiamo trovare il linguaggio corretto per dare sostanza a un patto intergenerazionale: un accordo “glocale” per ripensare la produzione del cibo in chiave sistemica/circolare e rendere più resiliente il modello economico associato al suo intero ciclo di vita.
La piattaforma ha il dovere di offrire un punto di vista autorevole, poiché derivante da ricerche scientifiche, ma allo stesso tempo di raccontarlo in maniera semplice, comunicativa, senza banalizzarlo, perché mai come oggi abbiamo bisogno che scienza e storytelling s’incontrino, con l’obiettivo di mettere in circolo il nuovo paradigma economico-culturale e promuovere innovazioni, riforme e finanziamenti utili a realizzarlo.
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